Attualità e arti

Milton Nascimento, di Amerigo Sallusti

Milton Nascimento, volto scolpito da africano, non è passato come i tropicalisti, dalla bossa nova e dal cantar desafinado di Joào Gilberto, ma dalla musica classica a dai ritmi rurali meno conosciuti. Fin dal primo disco – omonimo – se ne intuiscono le enormi potenzialità: un amalgama di Brasile e avanguardia europea del Novecento (Stravinskij, in particolare), di Villa-Lobos e di canzoni dei Beatles, che sono una delle grandi passioni del musicista. Nel 1972 poi, realizza “Clube de esquina”, commovente album collettivo dedicato a tutte le musiche del continente latinoamericano, che avrà un seguito nel 1976 grazie all’apporto di Chico Buarque. “Minas” del 1975 e “Native Dancer” del 1976 nascono da una profonda empatia tra Milton stesso ed il jazzista newyorchese Wayne Shorter, collaborazione che lo aprirà alle espressioni musicali di altri continenti, dedicandosi alle quali incrocerà il suo percorso di ricerca con Paul Simon. “Nascimento” del 1997 ripropone le più classiche e tradizionali scritture e partiture bahiane, il Brasile autentico. Da allora il samba, il choro e le innumerevoli radici culturali del paese sono/saranno sempre ben presenti in ogni nuova sua produzione, da “Novas Bossas” del 2008 all’ultimo (2015) “Tamarear”.

Carlinhos Brown, di Amerigo Sallusti

L’artista più amato tra gli emergenti -consolidati- della musica brasiliana, Carlinhos Brown, viene da Salvador di Bahia, la città più africana del paese carioca. I suoi concerti sono happening ad alto tasso di coinvolgimento, con momenti teatrali, coreografie fantasiose ed idee scenografiche spettacolari: e il tutto ruota intorno a lui, pirotecnico Prince in versione brasiliana. Antonio Carlos Santos Freitas (suo vero nome) all’alba dei cinquant’anni è percussionista, compositore e cantante (in ultimo) vanta una serie di collaborazioni stellari. Lo si è visto in giro per il mondo accanto a personaggi quali Joào Gilberto e Caetano Veloso, Joào Bosco e Djavan. Poi ha lavorato con (l’immenso) Arto Lindsay e partecipato a incisioni con il bassista-produttore Bill Laswell e con il sassofonista Wayne Shorter con i quali, tra l’altro, ha realizzato un disco di culto, quel Bahia Black che vede coinvolti musicisti della scena rock newyorkese d’avanguardia e jazzisti di fama come Herbie Hancock. nel suo incontenibile attivismo, Brown ha trovato il tempo di scrivere una manciata di canzoni per Sergio Mendes e per i Sepultura autori dell’irripetibile album Roots, dedicato ai nativi amazzonici. A proposito del suo nome d’arte racconta di essersi ispirato ai rivoluzionari afroamericani organizzati nelle Pantere Nere. Il suo primo album, Alfagamabetizado, rimane la sua massima produzione: il rock convive con il reggae ed i ritmi orgiastici del carnevale bahiano si sposano con paesaggi jazzati. Di tale album ha sempre detto: ”Non è una mia opera, ma collettiva elaborazione del mio popolo”. Fusione di culture e di mondi diversi e comunicanti. Vi parteciparono Marisa Monte, Gilberto Gil, Maria Bethània e Gal Costa. La summa. (Nov. 2020)

John Prine (1946-2020), di Amerigo Sallusti

Nell'estate del 1971 John Prine, un giovane chitarrista dal volto rotondo e la voce mielata, ex postino e ex militare, si esibisce all'Earl di Oldtown di Chicago, ritrovo per le schiere di appassionati di musica folk e country.

John attacca con Sam Stone ed è subito poesia "There's a hole in daddy's arm where all the money goes/And Jesus Christ died for nothing", dove si narra di un veterano del Vietnam tornato a casa in famiglia da tossicodipendente per i dolori di una scheggia di granata; e del lavoro che manca. Anni dopo due mostri sacri quali Johnny Cash e Bob Dylan, non mancheranno mai di cantarla durante i loro concerti. Così come Clint Eastwood la inserirà sempre sotto traccia nella maggior parte dei suoi film.

Il primo ed omonimo album dei primi Settanta è prodotto da Kris Kristorfesson, cantautore ed attivista dei diritti civili, ed è un florilegio di storie dell'America profonda (grande si sente la lezione di Woody Guthrie) tra Mark Twain e Raymond Carver, la coppia di anziani abbandonati dai figli in un ospizio, un detenuto che traffica per un pranzo di Natale dietro le sbarre, la fabbrica che chiude e la forzata migrazione interna alla ricerca di un nuovo lavoro per sopravvivere.

Un autentico cantore della vita quotidiana, confermato da canzoni che segnarono un'epoca, specchiandosi nei diseredati dell'american dream, con un umorismo appena accennato, Angel from Montgomery, Hello in There, Speed of the Sound.

Fondò anche una sua etichetta indipendente per non dipendere dallo strapotere e dalle imposizioni delle multinazionali della cultura, la Oh Boy, senza mai raggiungere il vasto successo, godendo però di stima diffusa e incondizionata.

Bruce Springsteen lo ha amato da subito e lo volle con se nella registrazione di Nebraska, disco fondamentale che dal 1982 ha ricostruito e riscritto i canoni per il nuovo folk, dove John suona la seconda chitarra acustica.

Lo ricordo ad un concerto al centro sociale Conchetta di Milano nel 2008, insieme a Giovanna, mia inseparabile compagna di vita, quando intonò le prime strofe di Some Humans Ain'T Human, fervente canzone antimilitarista; la sua voce roca, quella sua chitarra stridula ricordavano i suoni gutturali delle bombe che precipitano sui civili nelle tante guerre del mondo.

John ci ha lasciato due giorni fa, mercoledì 8 aprile 2020, le liriche dei suoi testi risuoneranno sempre in noi. (Apr. 2020)